Oltre i geni: il paradosso della coscienza umana
Una delle mie ultime letture è Il gene egoista di Richard Dawkins, pubblicato nel 1976. L’autore, biologo evoluzionista britannico, propone una visione radicale: l’uomo non sarebbe altro che una “macchina da sopravvivenza” programmata per replicare i propri ospiti, i geni.
In questa prospettiva tutto ciò che consideriamo esperienza umana: la morale, l’amore, l’altruismo, la cooperazione, la politica, la religione – non sono che sovrastrutture nate dall’impulso primario di garantire la sopravvivenza genetica. Una teoria riduzionista ed elegante, che però si adatta in modo quasi inquietante a ciò che possiamo osservare nella realtà se ci mettiamo in ascolto senza illusioni, accettando la perdita di centralità dell’uomo nell’universo.
È una forma di risveglio: l’uomo diventa consapevole della propria programmazione biologica. Ma in questo riconoscimento si apre un paradosso. Se comprendiamo di essere macchine da sopravvivenza, allora possiamo persino scegliere di opporci a questa programmazione, trascendendola.
In True Detective (stagione 1) il personaggio di Rustin Cohle incarna questa tensione. Per lui il gesto più onorevole che l’umanità potrebbe compiere sarebbe smettere di riprodursi: un atto di ribellione contro un trattamento iniquo riservato all’uomo, troppo cosciente e troppo tormentato per vivere come una semplice creatura biologica.
Siamo forse l’unica specie in grado di riconoscersi come macchina e, al tempo stesso, di immaginare di andare oltre i propri ingranaggi. È in questo spazio paradossale, tra biologia e libertà, tra destino e ribellione, che si gioca la nostra consapevolezza.
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